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Ho molto apprezzato il nesso di conseguenzialità che unisce i due episodi, il sedicesimo e il diciassettesimo, con cui il gatto e la volpe ci hanno posto di fronte a due dei possibili approcci, che sono alla base delle decisioni di Sari (la martire) e di Fuentes (l’arrivista) d’emigrare negli USA, il primo come risposta agli ideali più alti e puri della libertà e della democrazia, il secondo nel desiderio di una vita ricca e felice, grazie al successo personale. Nel vero e proprio manuale delle motivazioni umane, che è Bones, i due approcci così diversi, quasi antitetici, hanno una precisa collocazione: sono ambedue legittimi e sacrosanti, e messi in successione temporale ci vengono ancora una volta a ricordare la poliedricità, le infinite sfaccettature, la complessità dell’animo umano e ci vengono a suggerire non l’acquiescenza o ancora peggio l’indifferentismo, ma l’umana prudenza di fronte alla situazioni complesse, alla necessità di conoscere e di capire prima di emettere un’opinione o un giudizio. Non per niente, nel corso dell’episodio all’arrivista (che, a me personalmente, sta molto antipatico sia come personaggio, che come attore) viene offerta una possibilità di riscatto, quando racconta le vicende tragiche del nonno (Baia dei Porci) e del padre (vittima del regime castrista). A un Fuentes, che sgomita, che vuole emergere e primeggiare in ogni modo, Brennan si contrappone come torre che non crolla e che non si fa infinocchiare, come Cam e Angela. Ho amato il momento in cui lo acchiappa e gli sbatte la testa su tavolo! Ah, un vero momento di liberazione! “A buon intenditor, poche parole” e tante prese d’arti marziali. È Brennan, la nostra Brennan, la donna profondamente onesta, schietta, trasparente, fedele a se stessa, la quale ha saputo con tanta fatica e tanto dolore affrontare l’impegno di rivedere le scelte di vita, le sue priorità, ha avuto il coraggio di far sì che Booth scaldasse il suo cuore, lo riempisse d’amore, il quale si nutre di quello altrettanto grande e infinito nei confronti della figlia. Ho amato la semplicità con la quale, di fronte a un Booth che inizia a inquietarsi, gli conferma tutto questo. Che cosa c’è di più bello poter dire a un altro: “mi fai sentire a casa”, sei la mia casa. Bello, bello!
P.S.: posto quanto avevo scritto per l’episodio precedente, perché il tema della libertà percorre in filigrana anche questo episodio, per le ragioni esposte in precedenza. “God bless America”, mi è venuta spontanea alla mente questa citazione, quando mi sono posta il problema d’individuare la cifra stilistica dell’episodio. Con sobrietà, senza eccessi, con avvedutezza l’episodio è un atto di fede su ciò che è la ragione stessa degli USA, così come i Padri Fondatori l’hanno fissata prima nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1776 e poi nella Costituzione del 1787-89: l’essere tutti gli uomini eguali e per ciò stesso il loro vivere liberi sotto le leggi e un governo giusto, perché così Dio li ha creati e così Dio li ha voluti. Ci sono voluti quasi due secoli e tragedie infinite, perché questi principi esplicassero tutta la loro potenzialità e si estendessero a tutti i cittadini e, sicuramente, ancora tanto cammino è da compiere. Ma pur con tutti i tradimenti e le contraddizioni possibili e immaginabili, è indubbio che la storia degli USA è la storia di una democrazia costituzionale e sono stati loro a portare a realizzazione (con tutti i difetti e i limiti, lo ribadisco) il grande sogno che ha percorso la civiltà occidentale, quella di riattualizzare il mito dell’età di Pericle, quel governo dell’antica Atene, che appunto nella democrazia vedeva incarnarsi la libertà. Potrei continuare all’infinito, ma sicuramente non è il caso, desidero solo evidenziare un aspetto, il quale trova un riscontro nell’episodio. In esso si fa più volte riferimento alla dialettica luce/buio e essa ha una diretta derivazione biblica, infatti, non si deve mai trascurare, se si vuole capire qualcosa degli USA che molta dell’emigrazione era composta dai gruppi di fedeli delle Chiese protestanti più radicali, che venivano perseguitati in Gran Bretagna dalla Chiesa anglicana ufficiale. Per loro, il “nuovo mondo” fu equiparato alla Terra promessa, alla nuova terra promessa, alla terra “del latte e del miele”, che Dio metteva a disposizione dei suoi fedeli. Era un dono di Dio e come tale doveva essere vissuto. (Accanto a questo filone di emigrazione, ne è esistito un altro, perché è doveroso ricordare che l’Inghilterra era solita deportare i condannati di reati comuni, con cui popolare le sue colonie. Altro esempio a questo riguardo è l’Australia, non a caso, definita la “riva fatale”). In questa cultura, in questa mentalità, in questo credo, come ben sappiamo, è immerso Booth, il quale ha combattuto per difendere i valori e i principi della democrazia e della libertà e questo si vede molto bene (David è stato veramente bravo a esprimere l’intensità dei sentimenti), da come cresce la sua partecipazione e il suo coinvolgimento, il quale ha il suo acme alla fine, quando si oppone al patteggiamento. È molto bello quello scatto, ci comunica tutta la tensione morale, il senso di responsabilità e del dovere che fanno di Booth, Booth. In questo caso particolare (in precedenza, invece, l’ha fatto) non è possibile scendere a compromessi, sono in discussione i “sacri principi” e a essi è fedele. Ed è altrettanto bello, che la soluzione la trovi sempre nell’ambito della legalità, non cerca scorciatoie e non si fa “legge a se stesso”.
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