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Premessa: Eccomi qua, finalmente mi sono decisa a concludere e poi postare il commento di un episodio che mi è piaciuto molto, un episodio a alto tasso di moralità (e non di moralismo), nel quale, sembra quasi incidentalmente (anche se sappiamo bene che non è così), viene affrontato un tema colossale, quello del rapporto con il denaro, del ruolo cruciale che svolge nei rapporti umani, di come li segni, li caratterizzi e li condizioni nel male (la vittima e la sua famiglia) e nel bene (i nostri, in modo particolare Booth e Hodgins). Il denaro è uno strumento, che, se tramutato in fine, in ragion d’essere dell’esistenza stessa, diviene feticcio o ancora meglio idolo che risucchia e annienta, travolge ogni barriera, rende schiavi nell’illusione di un potere, un poter essere e un poter fare, assoluto, che può distruggere la vita stessa, la mia e quella degli altri. Il problema dei problemi è, allora, scoprire quale ruolo la morale, le sue regole, la responsabilità e il dovere che ne conseguono, svolgono in interiore e exteriore, ed è proprio su questo che il gatto e la volpe vogliono portarci a riflettere. Non sono assertori di tesi pauperistiche, il loro non è un moralismo di bassa lega, ma nel contesto di una series ci pongono di fronte a interrogativi che, oggi, nel momento attuale in cui la civiltà occidentale sembra affetta da una colletiva forma di schizofrenia paranoide sono cruciali in tutti i sensi sia a livello individuale che sociale. Il mondo globalizzato è, infatti, lacerato in maniera sempre più radicale, per cui, da una parte, la difesa dei diritti arriva a forme sempre più perfezionate di eticismo parossistico, dall’altra, si assiste al dilagare di una violenza, che fa strame di tutto nel perseguire l’affermazione di sé a prezzo di tutto e con ogni mezzo, per cui gli ostacoli vanno eliminati, travolti, annientati. Parole come limite, prudenza, rispetto, pudore, cortesia, gentilezza, moderazione, insomma, la buona educazione, sono evaporate dal discorso pubblico: bisogna urlare, gridare, distruggere l’altro, perché “l’altro è l’inferno per me”, secondo le profetiche parole di J.P. Sartre. Oggi più che mai è essenziale porsi di fronte alla domanda delle domande: chi voglio essere e di conseguenza che cosa devo fare. Domanda delle domande, che di per se stessa esige onestò intellettuale e onestà morale, senza ideologismi e senza partite prese. Sulla base di queste considerazioni mi sono mossa per commentare l’episodio.
È bello vedere la conclusione di un lungo, lunghissimo itinerario iniziato già nel Pilot, la marcia d’avvicinamento di due persone a dir poco antitetiche su tutto, stile di vita, cultura, modo di concepire la vita e la realtà. Booth, figlio di una famiglia modesta, con un padre violento e alcoolizzato, il quale ha trovato nella legge, nell’ordine costituito e nella loro difesa il cardine su cui basarsi e in cui trovare la ragione stessa della sua esistenza; Jack, nato in una famiglia ricchissima, il quale ha avuto tutto senza sforzo, senza fatica, ma forse proprio per questo si è potuto concedere il lusso di rifiutarlo. La legge (nel senso lato del termine) e la scienza sono state e sono le ancore grazie alle quali si sono realizzati (=salvati), pur portando dentro le inevitabili ferite e le conseguenti cicatrici di percorsi di vita niente affatto facili: dopo l’esercito, Booth ha trovato nell’FBI, l’istituzione-archetipo in cui si realizza il principio di Law & Order, il suo porto sicuro e la serve con fedeltà e dedizione. Jack, invece, l’ha trovato nei suoi studi, negli “insetti” e nella “terra” e nel mondo riparato e sicuro del Jeffersonian e a esso si è dedicato con pari fedeltà e dedizione (1x05). Nulla sul piano del buon senso può far pensare che questi due uomini umanamente si possano incontrare e fra di loro possa nascere un’amicizia, eppure la storia di Bones ci racconta una trama diversa, è un’altra (l’ennesima) delle storie impossibili di questa series. Nel corso degli anni il loro rapporto è cresciuto, sono approdati prima a una tregua armata, infatti, ci sono stati momenti di scontro feroce (2x14; 5x12), ma anche d’incontro, quando Booth racconta proprio a Jack del bacio della sorella di Cam oppure quando Jack gli chiede consiglio su come chiedere in moglie Angela (mi sembra che in quell’occasione ci sia il primo abbraccio di Jack), ma poi mano a mano il tutto si è stabilizzato nel rispetto reciproco. Tutto questo nell’episodio ha il suo approdo e ho trovato veramente originale che esso sia mediato dal dover affrontare ambedue la questione “denaro”, di come esso rappresenti un problema sia per il povero come per il ricco (anche se non lo è più). Hanno bisogno di tempo, devono elaborare, interiorizzare la novità che si è affacciata nella loro vita e lo fanno ambedue con lo slancio che viene dal loro cuore generoso. C’è evidentemente una notevole disparità di livello nel dover affrontare il loro problema, ma si trovano ambedue a dover decidere e scegliere e lo fanno con senso di responsabilità e del dovere, perché, contrariamente alla vittima e alla famiglia di questa non sono avidi, il denaro non è il loro idolo. Per Booth, un impiegato pubblico, uno statale, trovare lasciato con trascuratezza un assegno di importo superiore al suo stesso reddito annuale è un trauma, qualcosa di inconcepibile. Da qui la sua ritrosia, nella quale, è ovvio, sono implicate tante altre cose, non ultima il timore d’essere marginalizzato, di non avere un rapporto paritario con Bones. Sappiamo benissimo, già da 7x01, come egli insista per la compartecipazione sulla gestione familiare, da qui il problema della ricerca della casa. Un altro spaccato ci è stato offerto in 8x03, dove all'inizio rifiuta l’acquisto del passeggino e accetta, invece, alla fine quello per un nuovo barbecue, perché è un dono a Christine, una bimbetta che non può assolutamente farne a meno. Nell’evoluzione del suo atteggiamento interiore Booth è aiutato da quanto sta vivendo Jack, gli vuole andare incontro, lo vuole sollevare da una situazione difficile e delicata. Ma ecco che Jack, stupitisimo e sorpreso, rifiuta, perché la scoperta d’avere un fratello, la responsabilità del dover prendersi cura di lui, gli sta aprendo un mondo nuovo, vuole e desidera essere un uomo normale, che si rivolge a una banca e chiede un prestito. Il ricchissimo, paranoico complottista nell’accogliere il fratello, il farsene custode (è il ribaltamento del rapporto tra Caino e Abele, la terribile risposta del primo a Dio che lo interroga: “sono forse io, il custode di mio fratello”) completa il suo lungo itinerario esistenziale. Sono bellissime le parole che pronuncia nel dialogo finale: “Mi sento finalmente completo, senza sapere ti ho cercato da sempre”. E questa completezza lo dispone a un ulteriore, rinnovato incontro con Booth (e con tutti gli altri, è ovvio). Ormai, ambedue possono riconoscersi e stimarsi reciprocamente, non c’è bisogno di tante parole, ne basta una sola: responsabilità. Un breve cenno a Jonno Roberts, l’attore che recita Jeffrey, veramente bravo, non per niente è un premiato attore di teatro. Speriamo d’incontrarlo di nuovo.
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