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Ho cercato di guardare questo episodio con la mente sgombra dal senno di poi e quello che ne ho ricavato è stato un nodo alla gola, nonostante le molte scene brillanti di vita ordinaria nel laboratorio e non.
E’ stata una sinfonia di addii, sottintesi più che dichiarati, ma nella sostanza… addii. Ha un bel dire Brennan che un anno è soltanto il periodo nel quale la terra compie il suo moto intorno al sole, la vita (se così si può definire) di un astro non è quella degli umani. Un anno è un anno è un anno, una divisione convenzionale del tempo durante la quale, però, possono succedere infinite cose, soprattutto per chi lo vive come un distacco, una lacerazione. Per quello che ne sappiamo, potrebbe davvero essere un taglio definitivo.
Il primo addio è quello di Sweets a Daisy, che, tutta presa dal suo gioco di giovane esploratrice, ha gettato alle ortiche il futuro che avevano già tracciato insieme, e non ha nemmeno avuto la compiacenza di parlargli dell’opportunità che le si stava aprendo davanti. In completa superficialità ha fatto la domanda, ha in pratica chiesto la raccomandazione di Brennan, è stata accettata: questo la rende euforica, sicura che niente cambi nel suo rapporto con Sweets, il quale però, ferito, amareggiato, mette le mani avanti… a queste condizioni, forse non è giusto aspettarsi.
Il secondo addio è soltanto – si fa per dire – l’anno sabbatico di Angela e Hodgins, che lasciano il Jeffersonian per Parigi. Per Angela il cerchio si chiude, l’avevamo vista, squattrinata e un po’ bohemienne, accettare il lavoro al Jeffersonian proprio per pagarsi un viaggio in Francia. Dunque è un sogno che si realizza, ma è comunque venato di amarezza (anche se solo un soffio): le persone con cui lei e Hodgins hanno vissuto un magnifico sodalizio professionale e umano se ne vanno, e loro non se la sentono di investire tempo e affetto in un paio di novellini da tirarsi su.
Il terzo addio è il più doloroso per tutti, inutile dirlo. Ne avevamo avuto il sentore dopo il processo alla Taffet, quando il disciplinato mondo interiore di Bones le è sfuggito di mano, e lei non ne ha più ripreso il controllo. Adesso mostra quell’empatia che non aveva mai avuto, ripete che non può più vivere col timore che a Booth succeda qualcosa, e quel destino in cui lei non crede le offre su un piatto d’argento una soluzione che lei afferra al volo: la spedizione alle Molucche. Tornerà ad essere soltanto una scienziata che esamina una morte asettica, anziché quella concreta, spesso rivoltante, dei crimini risolti con Booth.
Contrariamente a Daisy, sente il bisogno di parlarne a lui, che non può certo trattenerla, non ne ha nessun diritto (Sweets, in un certo senso, lo avrebbe, ma non lo esercita). E’ tardi quando tenta una timida rassicurazione che le cose non cambieranno. E’ quello che ha creduto Booth, dalla sera della sua proposta fino a quando, durante il sopralluogo nell’appartamento della vittima ed al conseguente momento di confidenze fra uomini, ha saputo dell’imminente partenza di Daisy e d’istinto ha affermato che Brennan non lo avrebbe fatto – e ora si sente smentire. Il suo dolore è palpabile quando nega, perché le cose dovranno cambiare… d’altronde non è stata una sua scelta.
Anche per Bones il cerchio si chiude. La prima volta che l’abbiamo vista è stato in un aereoporto, al rientro da una sessione di scavi in Guatemala: disinvolta, anche troppo, ai limiti dell’aggressivo. Quella che lasciamo in un aereoporto, dopo cinque anni, non è più la stessa persona. La mano stringe quella di Booth, soldato patetico nella sua mimetica che gli dà un’aria goffa, già è cambiato rispetto all’affascinante agente cui eravamo abituati…
Un attimo eterno, prima di dividersi. “The Beginning in the End” non contiene nulla della gioia insita in un inizio. Contiene la malinconia per ciò che poteva essere e non è stato, e che una promessa non basta a mitigare.
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