9x11 The Spark in the Park
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9x11 The Spark in the Park

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    Squintern

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    Mi è piaciuto molto l'episodio, e mi è piaciuta Bones, il suo personaggio si è evoluto è maturato ed è più umana pur restando se stessa.
    Emily è insuperabile davvero.
    Booth è Booth tutto cuore.
    Emozionante il finale anche se io non riuscirei mai a vedere la vita dei miei bimbi nelle formule matematiche o chimiche (visto che sono perito chimico).
    Ah l'amore per le scienze rende proprio strani. :)
     
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  2. sella
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    Complice un’influenzona terribile e il periodo natalizio, arrivo con estremo ritardo a postare il mio contributo per questo episodio, che mi è piaciuto moltissimo. Avendo molto materiale su cui “elucubrare”, l’ho suddiviso in più parti. Ecco a voi la prima.
    I
    Se l’episodio precedente si caratterizzava per la sua “levità” con questo si vengono a toccare temi profondi, con implicati i massimi sistemi, perché come sempre, quando Bones è in stato di grazia, quello che ci viene proposto e riproposto è il grande tema della vita, di ciascuno dei personaggi nella loro individualità, nelle loro interelazioni personali e sociali, prospettandoci sempre che essa vale la pena d’essere vissuta pienamente (è l’ottimismo di Bones, il suo approccio poitivo), anche se viverla e realizzarla costa impegno e fatica e anche tanto, tanto dolore. Sta a ciascuno realizzarla nel migliore modo possibile, secondo le conoscenze e le capacità proprie, costruendola insieme con gli altri e mano a mano progredendola e migliorandola. È la massima responsabilità di ogni essere umano, è il suo “dovere” fondamentale (attenzione, dovere, non diritto, perché “fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”, Divina Commedia, Inferno, XXVI, 118-20, è il canto di Ulisse), il “filo d’oro” di platonica memoria, che unisce la frammentarietà del quotidiano, gli fornisce significato e senso e ci fa crescere e maturare. È la sfida lanciata da Kant con il suo “sapere aude” con conseguente uscita dalla minore età (Che cos’è l’illuminismo, 1784).
    È appunto storia di tutti i giorni, la quale inevitabilmente ha momenti topici nei quali si è di fronte “alla via della vita o alla via della morte” (Dt., 30,15), bisogna scegliere o il bene o il male, e in questo è sempre un prezzo da pagare. In questo episodio di fronte a un momento di tale natura sono Cam e il professore, ambedue chiamati a “ri-definire se stessi” e di conseguenza a determinare quale tipo di vita abbiano intenzione di vivere non solo esteriormente, ma soprattutto interiormente. In ragione di ciò, ritengo che il modo migliore per cogliere il senso profondo di questo loro itinerario sia qualificarlo come la “difesa dell’anima”, con ciò che è proprio della sfera interiore di ciascuno di noi, che attiene alla coscienza, ma al tempo stesso la travalica. Lo spunto mi è stato offerto dalla battuta finale di Cam, quando alla richiesta di spiegazione di Arostoo del perché abbia rinunciato ad avere giustizia, risponde che nel confronto con l’ex-amica (non mi ricordo il nome) ha capito che non poteva ridursi come lei: “ha preso la mia identità, non le consegnerò la mia anima”. Battuta molto bella, cui ho acconsentito immediatamente e che mi ha portato a riflettere. In fondo, anche il professore, pur se su un livello molto diverso, molto più tragico, si trova di fronte a un dilemma simile: difendere la sua anima o perdersi, ossia, morire.
    Ma prima desidero spendere due parole su Booth, il quale, in questo episodio toppa alla grande. Il suo intuito, la capacità di cogliere il “sentire” degli altri saltano e di brutto. Di fronte alla mancanza di reazione del padre, al suo essere un “diagramma piatto”, come sono solita definire questo tipo di reazione, Booth si indigna e parte per la tangente, prendendo il comportamento come indice di colpevolezza e non per quello che è in effetti, una disperazione così grande e totale da raggelare e bloccare tutto. È vero, il compito affidato a Booth nell’episodio è quello dell’ antagonista, di colui che, per il solo fatto d’esserci, consente all’eroe (Brennan) d’essere, appunto, l’eroe e in questa maniera risponde alle leggi della teatralità esistenti da sempre, fin dai tempi di Tespi e del suo carro (VI sec. a.C.). Ma forse c’è qualcosa in più, un’eco lontana, il riaffiorare del pregiudizio nei confronti della scienza, ma soprattutto, degli scienziati del Booth degli inizi, quando il rapporto con Brennan era un confronto e uno scontro continui. David è stato bravo nell’interpretare il groviglio di sentimenti che agitano il suo personaggio, come è stato bravo, quando in modalità cucciolone rientra a casa e affronta il necessario chiarimento con Brennan, anche se il suo presentarsi in t-shirt nera attillata, con i bicipiti bene in vista e sorrisone accattivante denotano una buona dose di “paraventaggine” (termine romanesco soft rispetto a un mondo di dire ben più esplicito). La sua è una vera e propria “captatio benevolentiæ”, cui Brennan non sa proprio resistere e chi le può dare torto.
    Il seguito alla prossima puntata.
     
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  3. sella
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    II
    Eccoci a Cam e al professor Watters, ambedue chiamati a affrontare delle sfide che, pur diversissime fra di loro, hanno peculiari punti di contatto. Ambedue devono recuperare e difendere il “sé”, l’anima, ciò che è di ciascuno ed è unico e irripetibile al punto tale che il cristianesimo è arrivato a concepirne l’ immortalità con tutto quel che ne è conseguito. Il parallelismo tra le due vicende oltre che tematico si evidenzia anche nel suo sviluppo, perché è nei dialoghi, per Cam prima con Arastoo e poi con Haley, la grande amica ai tempi del college, e per il professore con Brennan, che si focalizza il nucleo drammatico specifico per ciascuno dei due.
    Cam, tradita, offesa, mortificata, avvilita, costretta a vivere una vita condizionata – la famosa paghetta – dall’arbitrio di un nemico sconosciuto, che poi si è rivelato conosciutissimo, vuole giustizia, la pretende, vuole che a Haley (sono andata a cercare il suo nome) venga applicata l’aggravante del caso. Per me, Cam ha perfettamente ragione, da donna forte qual è, vuole che l’ordinamento giuridico nel suo fare giustizia si esplichi in tutta la sua potenzialità. Ma ecco che impatta con Arastoo, il quale le fa un discorso ineccepibile, di alta moralità sul perdono e su come esso sia in fondo l’unica strada percorribile. Cam, per sua fortuna, resiste, ribadisce le sue ragioni, non si fa intimorire e schiacciare dalla sicumera della superiorità morale che trasuda dalle parole di Arastoo, il quale si fa bello con lei. Tutto preso dalla sua “bella idea” di hegeliana memoria, Arastoo la sta negando, con il suo buonismo le sbatte in faccia il dovere morale senza accorgersi che l’umanità di Cam in quel momento non ce la fa. È in grado di “eruttare” il suo bisogno di giustizia, il suo voler essere difesa dalle regole e dalle istituzioni che la società ha predisposto per questo scopo, non può andare oltre. Il suo sentimento si avvicina alla vendetta? No, perché sarebbe vendetta se Cam volesse farsi giustizia da sola e forse ne sarebbe perfettamente in grado, come sta a dimostrare lo sganassone che rifila a Haley nel corridoio dell’FBI. Ma nel tumulto dei sentimenti che l’agitano, emerge la necessità di capire: perché, come mai, quali le ragioni di un simile tradimento e da essa nasce l’incontro, il dialogo, che ben presto volge al confronto duro, per approdare allo scontro e alla presa d’atto dell’inconciliabilità e del conseguente rifiuto a farsi coinvolgere, trascinare, in una parola, a farsi in qualche modo catturare e invischiare nelle dinamiche di Haley. Il dialogo è costruito molto bene, si procede per progressivi approfondimenti, per rivelazioni che vanno sempre più in profondità nella psicologia e nella personalità di Haley. Di fronte alle contestazioni di Cam, al suo controbattere punto su punto, Haley alla fine non può far altro che rivelare se stessa, la “facilità” iniziale nel rubare l’identità si colora dell’invidia che da sempre ha nutrito e nutre nei confronti dell’amica, ben presto strutturatasi nel rancore e nel risentimento. Haley è una personalità parassita, la quale, non avendo ottenuto nulla dalla vita, ha ritenuto legittimo risarcirsi nei confronti dell’amica (colpevole di averle rifiutato un prestito), che ha avuto tutte le fortune. Alla risposta di Cam che il suo successo è il frutto del suo duro lavoro, Haley non ha altro da obiettare se non facendosi vanto della sua di “bravura”, in fondo la polizia per un intero anno non è riuscita a identificarla. A questo punto, lo sbalordimento di Cam diventa rifiuto, totale e incondizionato, è come se le si fosse aperto uno scenario di fronte e intuisce il pericolo. La legittima richiesta di giustizia può tramutarsi in puntiglio e poi in ostinazione fino al punto di farla vivere di rancore e di risentimento e questo Cam non lo vuole proprio. Così salva se stessa, salva la sua anima e abbandona Haley al suo destino. Un’ultima precisazione, a Arastoo che le chiede se ha seguito il suo consiglio, Cam diplomaticamente risponde sì e no. Per me, la verità propende per il no: in quei momenti Cam non è stata sfiorata dall’ipotesi del perdono. Infatti, non la perdona. Vuole essere lontana da lei mille miglia e per ottenere questo decide di non insistere per l’aggravante, solo questo. Vuole fare punto e a capo e riprendersi in toto la sua vita. È un’affermazione di indipendenza, lo ripeto, non è perdono.
    Il perdono, quello vero, quello che nasce da una libertà interiore così grande che fa a meno dell’avere ragione al punto d’accettare di perdere, di spogliarsi e di disarmarsi di ogni pretesa e aspettativa, è un punto delicato, delicatissimo, che va affrontato con tutte le cautele del caso. Il perdono nasce libero, non può essere imposto e solitamente è il risultato di un itinerario lungo e difficile, il quale va rispettato in tutte le sue fasi. Al perdono si addicono la discrezione e il silenzio.
    Discrezione e silenzio che non sono di Cam in questa fase, mentre sono la cifra con cui ci viene presentato il professor Watters e, pur nella somiglianza cui si è accennato all’inizio, qui si apre uno scenario completamente diverso: il professore non deve perdonare un altro, deve perdonare se stesso.
    Il seguito a un’ulteriore puntata.
     
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  4. sella
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    III

    Teresa in un’altra sezione del Forum, rispondendo a Annina, ha osservato che Bones, quando “ha a che fare con situazioni particolarmente emotive dà il meglio di sé”. Ho trovato quest’analisi così giusta, che mi sono permessa di citarla come epigrafe a quest’ultima parte del mio commento, perché l’itinerario del professor Watters, la sua discesa agli inferi e la sua risalita, è un percorso bellissimo sia dal punto di vista emozionale, che razionale, con le sue implicazioni sul senso della vita e del suo intreccio con la scienza. Di come questa possa o non possa rispondere agli interrogativi e ai quesiti che la vita continuamente propone e rilancia, di come essa debba sempre essere al servizio della vita stessa e non viceversa. Tutto questo e ben altro è implicato nell’incontro tra Watters e Brennan, cui sia Richard Schiff che Emily con la loro recitazione hanno saputo dare un’intensità degna d’ammirazione.
    Il professor Watters è sicuramente un uomo mite, immerso nel suo mondo di formule, completamente dedito alla ricerca, chiuso nel suo bozzolo d’altissima intellettualità, che non sembra sfiorato dalle preoccupazioni del tran tran quotidiano. Sicuramente, prima la moglie e poi la figlia l’hanno custodito e curato, protetto e lui si è progressivamente affidato senza preoccuparsi, senza apparentemente farsi sfiorare dalle mille faccende e dalle mille complicazioni della vita di tutti i giorni. Il professore è un uomo egoista? Certamente, ma questo non significa che non ami la sua famiglia, sono l’ama a modo suo, perché il primo posto per lui è la scienza, che assorbe tutta la sua attenzione e tutte le sue energie. Questo mondo così tranquillo e così rassicurante un bel giorno, all’improvviso, crolla, esplode, il principio di realtà con tutta la sua crudeltà e ferocia irrompe e distrugge tutto. La reazione del professore è tipica di una persona annichilita, scioccata, sbalordita al punto tale da non riuscire quasi a parlare, a connettere, a pensare, a riconoscere con se stesso che la figlia è morta. È talmente bloccato da suscitare scandalo e ira in Booth, mentre Brennan “intuisce”, sente nascere dentro di sé empatia e comprensione, al punto d’aiutarlo nella sala degli interrogatori. Brennan inizia a preoccuparsi, coglie ciò che si agita nel suo cuore e va da lui, trovando conferma ai suoi sospetti. Una volta che i sentimenti e le emozioni hanno avuto modo d’esprimersi, il professore è stato travolto da un senso di colpa immenso, totalizzante e paralizzante: è stato un padre pessimo, che si è approfittato della figlia, non ha provveduto a lei non sul piano materiale, ma su quello spirituale, sul suo bisogno d’amore e d’affetto e la responsabile di tutto ciò è la scienza. Devono pagare ambedue, il professore e la scienza. Ecco la lavagna vuota, tutto è stato cancellato: la lavagna vuota è il simbolo della vita stessa del professore, non c’è più niente, la moglie e la figlia sono morte, la solitudine esistenziale è terribile, insopportabile, il suo fallimento è completo. Il suicidio sembra essere l’unica strada, l’unica soluzione a disposizione del professore. Ecco allora Brennan intervenire e il suo discorso è esortativo, quasi da retore antico, è duro, spiazzante (non c’è nulla di mellifluo), è un vero e proprio richiamo all’ordine, alla responsabilità, al dovere di una missione da compiere, fino al punto da evocare il valore etico del lavoro. È, al tempo stesso, un discorso intriso di profondissima umanità, che ci fa gustare di come Brennan sia cresciuta e maturata in questi anni. La difesa della scienza, che è poi la difesa dell’ anima del professore non è sviluppata negando o relativizzando quanto sta vivendo e provando, tutto il contrario, ma facendo cogliere a Watters che “amare” la figlia comporta continuare a vivere in tutti i sensi, non abbandonare la sua razionalità, il suo lavoro, e così difenderla, consentendo alle autorità di trovare il vero colpevole e assicurarlo alla giustizia. Il che avviene, ma Brennan non è contenta, è ancora preoccupata e torna da lui e qui abbiamo uno sviluppo veramente bello. La lavagna è piena, formule su formule la riempiono, il professore è tutto preso nel suo impegno e Brennan finalmente riesce a cogliere il significato di tutti quei simboli: sono il racconto della vita di Amanda, la poesia d’amore che il padre sta esprimendo per lei. Brennan è rapita, quasi incantata di fronte a quanto Watters è riuscito a realizzare. Finalmente, anche grazie a lei, attraverso un dolore e uno strazio indicibili, quest’uomo è riuscito a fare unità dentro se stesso: il suo intelletto, il suo cuore e la sua mano si sono uniti, sono riusciti armoniosamente a cantare. Canto d’amore che nel simbolo dell’infinito che Watters traccia a conclusione dell’ultima formula, quella che ci racconta di come Amanda sia un’altra volta ferma, viene a assumere un significato altissimo. Amore infinito, amore al di là di ogni contingenza, che si proietta al di là dello spazio e del tempo. Grazie a Brennan, quest’uomo distrutto ha trovato in sé il coraggio d’iniziare un percorso di rinascita, in cui la scienza da nemica è tornata a essere amica con qualcosa in più. Per me, il professor Watters è riuscito a infrangere la barriera cartesiana, perché la scienza di quella lavagna è “episteme” nel pieno significato greco della parola, unione di saggezza e di sapienza, quella che, ad esempio, è sintetizzata nel “giuramento d’Ippocrate”, per secoli alla base della professione medica.
    Lo confesso, saluto con un po’ di rimpianto il professor Watters, perché è un personaggio che personalmente mi ha dato molto, mi ha fatto riflettere, mi ha portato a considerare che non tutti gli scienziati siano scientisti. Mi farebbe piacere incontrarlo di nuovo, come mi farebbe piacere incontrare di nuovo Richard Schiff, l’indimenticato Toby Ziegler di West Wing. La sua interpretazione è stata sublime, da lasciarmi a bocca aperta ….
     
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18 replies since 23/11/2013, 10:13   1038 views
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