7x06 The Crack in the Code
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7x06 The Crack in the Code

15/12/2011 discussione versione originale

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  1. sella
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    Eccomi qua a cercare di rispondere alle interessanti sollecitazioni inviatemi da Michela, ma prima devo ringraziare Teresa per il suo altrettanto interessante commento, perché opportunamente ha contribuito a chiarire aspetti che non mi ero preoccupata di affrontare.
    Ho cercato di metabolizzare, mi sono data il tempo per rifletterci sopra e la mia conclusione è che, se per la prima parte della tua analisi posso essere d’accordo con te, in quanto, lo riconosco, ho trascurato del tutto di prendere in esame l’eventuale processo evolutivo e motivazionale che ha portato Pelant a commettere quello che ha commesso, mi permetto ancora di dissentire dalle tue conclusioni, pur, come già scritto, rispettandole in toto. Alla fine del processo evolutivo, il famoso salto di qualità che ci viene sempre ricordato in Criminal Minds (Teresa, cara, anch’io sono una sua fedele spettatrice, anche se, a volte, con gli occhi semichiusi per la violenza delle immagini), Pelant è un serial killer che gioca con la vita degli altri, fino al punto di ucciderli o di progettare di farlo, come ben possiamo intuire dai fotogrammi finali, perché il suo è un potere assoluto, un potere di vita e di morte e, pertanto, nessuno si deve azzardare a frapporgli ostacoli.
    Precisato ciò, ho cercato di colmare la lacuna.
    Perché e come tutto è iniziato. Gli spunti sono veramente scarni: ad un certo momento Pelant ha rivolto i suoi attacchi ad alcuni dei siti istituzionali del suo paese. Da Sweets vengono citati in ordine cronologico il Senato degli USA e il Dipartimento della Difesa, per cui, grazie all’opera d’investigazione dell’FBI, è stato individuato, mandato sotto processo e condannato a quella che per lui è una vera e propria morte civile: il non poter svolgere la sua attività di hacker. Da qui, l’astio, il rancore, l’odio nei confronti delle autorità costituite, le quali hanno osato trattarlo come una “pezza da piedi” qualsiasi, sentimenti che crescono in maniera esponenziale, autoalimentandosi di tutte le sue frustrazioni, in un processo che porta il suo ego smisuratamente narcisistico al vero e proprio delirio d’onnipotenza. Come si permette il potere costituito, per definizione corrotto e corruttore, a invadere così la mia vita e devastarla in questa maniera? No, non è possibile, devo reagire e colpire il mio nemico, ma non posso colpire così, nel mucchio, devo identificare i suoi centri d’eccellenza, qualcuno a un livello tale, con cui mi possa scontrare e, al tempo stesso, divertire, perché la “guerra” che ho iniziato la posso configurare come un vero e proprio gioco di ruolo, in cui tutti sono pedine ai miei comandi. Dovrò sacrificare qualcuna di esse, ma che volete che sia, sono pedine, non esseri umani e poi la guerra comporta inevitabilmente vittime collaterali. Che volete che sia, se con il mio attacco al Dipartimento della Difesa, nello spazio del blackout qualche soldato avrebbe potuto rimetterci la vita. Che volete che sia, se per provocare ben bene i miei avversari, devo scegliere qualcuno e sacrificarlo. Non sono io il cattivo, sono sempre gli altri. Il gioco così inizia …
    A questo punto mi domando: quale guerra viene iniziata? Chi e cosa legittima Pelant a imbarcarsi in una simile impresa? Combatto i reati, commettendo, a mia volta, reati? Oppure, dato che sono io ad agire, e poiché alla fin fine sono legge a me stesso e svincolato da ogni dovere, se non quello di raggiungere il risultato prefissomi, il caro e vecchio “il fine giustifica i mezzi”, essendo in effetti un (il) paladino del bene, il cavaliere senza macchia e paura, oltre-uomo di nietzschiana memoria, che si preoccupa del bene e della felicità delle povere pecorelle, o ancora, meglio, prendendo lo spunto dall’interrogatorio iniziale dell’inserviente, di coloro che non sono altro che “bacarozzi” (= scarafaggi. Definizione romanesca), il mio agire è “al di là del bene e del male”? Come Booth, mi permetto di dissentire.
    Una cosa riconosco a Pelant degna di nota: l’accenno alla crisi sistemica, per cui la iperregolamentazione rende nel mondo contemporaneo i sistemi e i sottosistemi sempre più complessi e, pertanto, più fragili. Quando ho sentito pronunciare all’attore quella battuta, le mie antennine si sono drizzate e lo confesso mi sono sentita intellettualmente molto vicina agli autori di Bones per averla inserita. Essa apre scenari per me affascinanti e su cui ho studiato, scritto e insegnato per molti anni, ma non è questa la sede opportuna per trattarla, anche perché è talmente importante e coinvolgente da non poter essere ridotta in briciole, va rispettata in tutta la sua problematicità e complessità. Ma anche perché, ve lo confido sottovoce, non mi voglio rovinare il mio commentino sulla scena finale, la famigerata seconda puntata.
     
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50 replies since 20/9/2011, 19:04   3166 views
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