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Il commento è dedicato a Lidiana e Romina. Grazie, ragazze, per le vostre bellissime parole. Premessa: I post precedenti sono così profondi ed esaurienti, che mi consentono di tralasciare molti argomenti di questo episodio bellissimo, di una coralità perfetta, cui sembra di potersi applicare il famoso motto dei moschettieri: “Uno per tutti, tutti per uno”. Non potendo fare i dovuti collegamenti, ho scelto di ometterli, solo desidero ringraziare Cristina per la sua citazione di “Resistenza e resa” di Bonhoeffer, la quale consente di inquadrare il cammino di Brennan e Booth come un imparare a vivere nella reciproco accogliersi, per cui ogni gesto e ogni atto d’amore è, al tempo stesso, dono e perdono (per inciso, lo sai che grazie a te il topic è citato da Google, puoi verificare andando a cercare “resilienza in Bonhoeffer”). Prima d’entrare nello specifico della mia analisi, mi sembra doveroso esprimere il dovuto riconoscimento nei confronti degli autori, per come hanno impostato il tutto e per le soluzioni tecniche adottate. Infatti, l’essere ricorsi all’usato e abusato “escamotage” della “dissolvenza”, tipica nella cinematografia statunitense durante il periodo di vigenza del Codice Hays e nella televisione USA soggetta a una regolamentazione ancora più restrittiva, mi ha deliziata (una volta le scene girate in camera da letto non prevedevano la possibilità del letto matrimoniale – avrebbe potuto suscitare pensieri peccaminosi -, per cui la soluzione adottata era rigorosamente dei letti gemelli. Suscitando, al tempo stesso, la perplessità e l’ilarità di mia madre). Mi sono divertita moltissimo, quando ho capito la scelta adottata per ben due volte di seguito, intuendo subito il putiferio che avrebbe suscitato. Non per niente, mi è venuto spontaneo definire Hanson e Nathan come i due “perfidoni”, i quali, però, in questa maniera hanno dimostrato coraggio nel lanciare un simile sasso in piccionaia con cui, al tempo stesso, sconcertare e stupire i fan scontenti e insoddisfatti e gli addetti ai lavori negativi a dir poco nei confronti di questa stagione. La dissolvenza permette di dire e di non dire, di vedere e di non vedere, di arrivare fino al momento cruciale e poi spostare l’inquadratura su un particolare qualsiasi grazie al quale cambiare scena. Era la soluzione canonica ai tempi della mia giovinezza, tutto veniva lasciato alla libertà degli spettatori: quante fantasie, quanti sospiri … Era vera e propria ipocrisia, ma era anche la magia del cinema di una volta. Questo significa il riscatto dei due? No, non credo proprio, ma ormai, quando escono dalle nebbie fitte e tornano a essere gli autori che per tanto tempo abbiamo amato e rispettato, ritengo sia doveroso riconoscerlo, non cadendo in atteggiamenti di partito preso. Dopo aver preso atto della soluzione adottata, mi sono chiesta: è stato solo un espediente tecnico oppure grazie ad esso si è voluto raggiungere un valore contenutistico? La risposta che mi sono data è stata la seconda e sulla base di essa mi sono mossa per le mie riflessioni e considerazioni.
La coppia. Con questo episodio si può ritenere concluso il processo di umanizzazione di Brennan e la soluzione della crisi esistenziale di Booth. È facilmente intuibile come i due esiti siano strettamente interdipendenti fra di loro, l’uno non potrebbe essere senza l’altro, anche se per Booth un ruolo importante lo svolge anche Broadsky, sua vera e propria catarsi rispetto al suo passato di cecchino e al peso che esso ha rappresentato nella sua vicenda personale. Nel definire ormai pienamente raggiunta l’umanizzazione di Brennan, come persona ormai disponibile a viversi nella sfera emozionale e sentimentale, mi sembra importante sottolineare le parole che ella pronuncia subito dopo la morte di Vincent. Ancora inginocchiati, ella si rivolge a Booth e gli attesta che ha fatto tutto il possibile e che nel farlo è stato coraggioso. È un comportamento da evidenziare, perché non solo rivela per l’ennesima volta il suo cuore generoso, ma perché in un momento di sconvolgimento totale, sotto shock per la morte improvvisa, Brennan non si preoccupa per sé (lo farà più tardi), ma si rivolge all’altro vicino a sé, lo incoraggia, lo sostiene, dà a Booth ciò di cui ha bisogno, insomma si preoccupa per lui. In questa maniera manifesta la sua sensibilità e la sua avvedutezza. Con questa sua crescita non significa che Brennan non resti se stessa, con i suoi vezzi, i suoi comportamenti tipici, come dimostra ampiamente nella scena finale dell’episodio, quando si presenta con la pianta di ortensie. Quel vaso messo sulla bara può sembrare ridicolo, mentre ha la funzione di suscitare tenerezza e simpatia in noi che stiamo assistendo. Spezza la drammaticità del momento e, in fondo, crea un ponte tra la morte e la vita. La prima si è presa proditoriamente Vincent, ma la seconda con quella pianta e con la canzone riafferma la sua forza che è quella di continuare ad essere. Vengo alla scena clou, al momento tanto atteso ormai da tanti anni. Quando è iniziata la scena a casa di Booth, il mio commento è stato: “ma che burino, lei sul divano e lui, comodo, comodo nel suo lettone” e non mi convinceva neanche tanto l’offerta dello scambio. Ma poi, mano a mano ho capito, che la disposizione dei due personaggi aveva un significato ben superiore a quello d’assicurare a Booth il necessario riposo per poter essere nel pieno delle sue forze ed energie. La scena ha un valore simbolico, che, per me, racchiude, l’essenza di Bones, ne rivela l’opzione di fondo e ci consente, almeno a me, di fare valutazioni che arricchiscono ulteriormente l’impianto narrativo dell’intera series. Lo sappiamo benissimo: ad un certo punto della notte, anzi al fatidico scoccare delle 4.47 una Brennan scioccata entra nella stanza e questa volta è lei a chiedere aiuto a Booth. È una scena che va centellinata attimo dopo attimo. Atterrita e presa dal senso di colpa per le male interpretate parole di Vincent, Brennan pronuncia un interrogativo di fondamentale importanza: “Che razza di persona sono?”. “Io, chi sono?”. Attenzione, nel porsi la domanda delle domande, Brennan non se la gioca nella sua interiorità, come in fondo ha sempre fatto da quando è stata abbandonata dai genitori, ma si muove, va e chiede aiuto e nel farlo “apre la porta”, entra e, dopo aver ricevuto le debite riassicurazioni, dimostra ancora d’avere bisogno, bisogno d’essere consolata, d’essere coccolata, d’essere accolta, di potersi rifugiare fra due braccia potenti e di posare la sua testa sul petto di Booth, il quale spalanca le braccia e l’attira a sé. È bellissimo questo momento, finalmente i due si riconoscono e si accolgono nello stesso momento e con unità d’intenti, senza difese e senza preclusioni, in un gesto semplicissimo che, però, esprime e significa tutto. Non per niente, dopo aver pianto ancora un po’, Brennan si distende e, facendosi più vicina, riposa. Sono finalmente a casa, ciascuno dei due ha trovato nell’altro il porto della propria vita. È una scena perfetta e, a mio modesto parere, così doveva terminare, perché solo in questa maniera ci permette di gustare fino in fondo cosa li ha legati finora e che cosa si accingono a vivere nel loro futuro. Ma a questo livello di interpretazione se ne può aggiungere un altro. Brennan e Booth sono separati da una porta, l’espressione di sottaciuto rimpianto che si legge sul viso di lui, la dice lunga. Booth è ben consapevole che con tutto quello che è successo, egli non può prendere l’iniziativa, gli è inibito dalle scelte fatte nel suo recente passato. Ma … ecco che quella porta viene aperta da Brennan, è lei a prendere l’iniziativa, è lei ad andare verso Booth, è lei a colmare la distanza e in questa maniera, senza parole, senza spiegazioni, senza chiarimenti, ella fa rinascere Booth, gli consente di tornare pienamente se stesso. In sostanza, gli porta la vita, fa, in fondo, quello che ha sempre fatto con le modalità tutte sue particolari, con il suo essere se stessa, fin dagli inizi, fin dal loro primo incontro, quando Booth ha sentito dentro di sé quella notte, che rifugiarsi nel gioco era una soluzione inutile e meschina. Fin da subito Brennan ha, forse inconsapevolmente, fatto emergere le parti migliori di Booth, gli ha consentito di migliorarsi. Ripeto, è fondamentale, gli ha dato la vita, come avevamo già visto in 5x07, quando gli è stata vicina nel suo affrontare la prova di tiro. Cosa è successo poi? Non lo so e francamente non mi interessa, so che su questo avrò i chiarimenti necessari a tempo debito e come scritto tante altre volte, non sono affatto presa dall’ansia dell’attesa, anzi trovo tutto questo molto sfizioso. Senza un po’ di incertezza, come potremmo trascorrere l’estate? Su che cosa potremmo speculare? Un’ultima cosa: una piccolissima sfumatura, che, però, è nello stile di Bones ed è una delle ragioni per cui amo tanto la series. Quando Brennan entra, Booth, dopo la prima sorpresa, si mette seduto a bordo del letto e posata la pistola, fa un piccolo gesto, controlla di non essere in disordine, verifica che la fatidica maglietta nera sia al suo posto. Inquadrato il gesto, mi è piaciuto moltissimo. Perché Booth si preoccupa di non essere in disordine, verifica che qualche centimetro della sua pelle non sia esposto? In fondo, Brennan l’ha visto nudo, l’ha spogliato senza denudarlo, è vero. Allora, perché questo ritegno? Semplice, per rispetto dell’altro, essere decorosi è segno di buona educazione e di civiltà. Questa è classe, signore mie.
P.S. Il personaggio dell’agente Shaw mi è piaciuto, come pure l’attrice. Spero che torni nella prossima stagione e si inserisca nella nostra famigliona. Mi è piaciuta a tal punto che mi sono messa a immaginare eventuali sviluppi sentimentali: Sweets, Wendell? Vedremo.
Scusatemi, ho iniziato riferendomi a Bonhoeffer, il grande teologo tedesco, martire per la libertà. Mi permetto di riportare questa sua poesia, che ho trovato cercando ulteriori informazioni. “Chi sono io?
Chi sono? Spesso mi dice questo o quello che dalla cella in cui son tenuto esco disteso, lieto e risoluto com’esce un signor dal suo castello.
Chi sono? Spesso mi dicono che parlo a chi mi sorveglia con liberta', affabilita' e chiarezza come spettasse a me di comandare.
Chi sono? Anche mi dicono che sopporto i giorni infelici imperturbabile, sorridente e fiero come chi e' avvezzo alla vittoria.
Sono io veramente cio' che gli altri dicono di me? O sono soltanto cio' che io stesso conosco di me? Inquieto, pieno di nostalgia, malato come uccello in gabbia, bramoso di aria come mi strangolassero alla gola, affamato di colori, di fiori, di voci d'uccelli, assetato di parole buone, di umana compagnia, tremante di collera davanti all'arbitrio e all'offesa piu' meschina, agitato per l'attesa di grandi cose, preoccupato e impotente per gli amici infinitamente lontani, stanco e vuoto nel pregare, nel pensare, nel creare, spossato e pronto a prendere congedo da ogni cosa?
Chi sono? Questo sono o sono quello? Sono oggi uno, domani un altro? Sono io l’un l’altro insieme? Davanti agli uomini un simulatore e davanti a me uno spregevole, querulo vigliacco? O cio' che ancora io sono somiglia all'esercito sconfitto Che si ritrae in disordine davanti alla vittoria gia' conquistata?
Chi sono? Porre domande cosi' da soli e' a scherno mio. Chiunque io sia, tu mi conosci, tuo io sono, o Dio!
Dietrich Bonhoeffer, Giugno 1944.
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