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Non so, prima di tante “nefandezze” mi sarei lanciata nel fare collegamenti (perché è un esercizio che trovo veramente sfizioso) con vera e propria baldanza, ora sono molto più prudente. Guardando l’episodio mi è balzato subito evidente il legame (per il quale, in verità, non ci voleva davvero molto) tra il caso giudiziario e le storie personali di ben tre personaggi, Brennan, Booth e Sweets, tutti uniti da infanzie e adolescenze tragiche, con lo stigma della violenza e degli abusi. Mi sono chiesta se l’aver voluto inserire un episodio così impostato quasi alla fine della stagione, prima dei due conclusivi, che dovrebbero in qualche modo segnare una svolta nella storyline o almeno concludere bene o male la “stagione infelice” e aprire le prospettive per la prossima, questo ritorno “alle origini” abbia un significato e svolga un ruolo decisivo nel riprendere le fila e rilanciare il motivo di fondo della series, quella educazione ai sentimenti, che per me è il suo asse portante, consentendoci un bilancio nel loro itinerario di liberazione e di crescita. L’ipotesi non mi è sembrata del tutto infondata e la condivido con voi, tenendo a precisare che è un’ipotesi e come tale va letta e interpretata. I comportamenti e le parole che pronunciano, il loro agire e interagire sono importanti, perché segnano il cammino personale, la continuità/discontinuità con il loro passato, su quale ruolo esso svolga ancora nello loro vite e qui si delinea la grande differenza esistente. Per Sweets, il quale, come acutamente sottolineato da GG a suo tempo, ha avuto la fortuna d’essere stato adottato da persone buone, che, amandolo, gli hanno insegnato l’amore e il bisogno della ricerca del bene, le violenze subite sia fisiche che morali a livello privato e a livello istituzionale sono il suo passato, che appunto è passato, è ricordo e come tale è stato elaborato e interiorizzato, si è riconciliato con esso. Ne può fare memoriale, è un arricchimento della sua sensibilità e del suo personale approccio con la realtà. D’altronde non potrebbe essere altrimenti, per quanto ne so, Sweets non potrebbe esercitare la sua attività di psicologo senza essere andato lui stesso per primo in analisi. Questo, sempre a quanto ne so, era obbligatorio per i freudiani, ma a livello di buon senso dovrebbe essere così per tutti, ma non conosco la normativa al riguardo vigente negli USA. Per gli altri due è ancora carne viva, ferita aperta, anche se tra Brennan e Booth scopriamo essere un dislivello non di poco conto. Il comportamento di Brennan, il suo approccio iniziale al caso lascia un po’ interdetti: la sua rigidezza, la sua malcelata ostilità nei confronti dell’avvocato dei servizi sociali (bellissimo personaggio e molto brava l’attrice), il suo non accettare fin da subito l’umanità di Amy/Samantha, ma inquadrarla solo come fonte di prove e prova lei stessa per poter salvare l’ipotetica vittima, se ancora viva, stupiscono. Dopo tante testimonianze della sua sensibilità e del suo coinvolgimento, 1x05 e 3x12 fra tutti, come è possibile un simile atteggiamento. Per me, molto semplicemente è una difesa con cui Brennan fa argine al tumulto dei sentimenti e alla paura che essi possano condizionare in qualche maniera l’oggettività scientifica, ma basta che nel confronto con Sweets al Diner (il quale svolge qui un vero e proprio ruolo maiuetico) abbia modo d’esprimersi, di dirsi, che il tutto si riequilibra e il suo vissuto diventa veicolo di incontro e di condivisione. Booth no, “esplode” in un gesto violento, aggressivo, messo in quella situazione, con tutto ciò che sta vivendo, di fronte ad un uomo che anche in sala interrogatori rivela la sua natura brutale, perde il lume della ragione, attacca e a sua volta picchia, in sostanza, pur con tutte le ragioni e le scuse del mondo, è come suo padre, si comporta come lui. Il suo volto sconvolto e, al tempo stesso, atterrito alla fine della scena ci comunica tutto (David, David, mon amour): la paura della sua vita, o meglio, il suo terrore, sono come lui, sto diventando come lui, tutti i miei sforzi, i miei tentativi, l’impegno, la volontà, la dedizione ad essere e diventare un uomo onesto e perbene, uomo che vive per la giustizia e secondo giustizia, non sono serviti e non servono a niente. La maledizione che mi porto dentro è qui ed è sempre pronta a sconfiggermi. Quante volte Booth ha vissuto esperienze analoghe? Molte, moltissime, un’infinità? Ma adesso è una grande novità: l’uomo abituato a tenersi tutto dentro, ben chiuso nella sua coscienza, l’uomo che ha costruito un’immagine di sé con cui esorcizzare le sue paure e i suoi terrori, non è solo, ha vicino a sé una donna, la donna, l’amica e l’amata, fedele e solidale con cui può parlare, con cui può confidarsi e finalmente parla, si esprime! E’ la donna che ha riconosciuto essere il “tutto” nella sua crisi più nera, ma cui ancora non ha chiesto perdono. Lo farà? Verbalizzerà? Condividerà con lei e così con tutti noi le ragioni e le cause del suo crollo emotivo e sentimentale? Ai posteri l’ardua sentenza, per ora possiamo solo riconoscere che un uomo che si era perso, sta tornando a casa, sta riscoprendo dentro di sé le ragioni più profonde del suo essere, le motivazioni più vere dell’intera sua vita. Il passato (il padre) e il futuro (Parker) sono vivissimi nel suo presente, ma il suo essere un buon padre per Parker deve necessariamente passare per la “cruna dell’ago” dell’essere figlio. Perché? Perché, “il futuro è alle spalle”, secondo la bellissima definizione di Hannah Arendt, e non affrontarlo, non metabolizzarlo ci riduce a statue di sale come la moglie di Lot. Un percorso tutto nuovo si apre a Booth, la cui novità è data dal suo non essere solo e, soprattutto, dal suo riconoscere d’aver bisogno dell’aiuto dell’altro, di non respingerlo, di non rifiutarlo. La novità è la sua Bones ...
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