CORRISPONDENZA D'AMORE

Qandahar, 9 giugno 2010

E’ passato quasi un mese dalla prima volta che ti ho scritto.

Durante le mie giornate mi sono ritrovato sempre a ripromettermi di prendere carta e penna la sera, ma gli impegni di queste prime settimane sono stati estenuanti.
Il campo di addestramento è pieno di giovani reclute pronte per essere formate. Ragazzi che il più delle volte non si rendono quasi conto della missione che hanno giurato di portare a termine.

E anche io ho una missione... e sono un ipocrita.
Con te, me... persino nei confronti di un pezzo di carta al quale lascio in custodia i miei sentimenti.

Perché ti sto dicendo che non ho potuto e in realtà non ho voluto.
Il lavoro qui è impegnativo, certo, ma non a sufficienza da non tenerti nei miei pensieri costantemente, non abbastanza da costringermi a tenermi lontano da te.
Ancora più di quanto già siamo.
Non posso mentirti nemmeno a migliaia di chilometri di distanza.

Non ho voluto scriverti. Ho voluto tenerti via dal cuore per qualche tempo. La missione altrimenti non avrebbe senso se io non facessi uno sforzo e... credimi, è un grande sforzo.

E’ come se i ricordi stessero percorrendo al contrario quella strada che ci ha portato a due capi del mondo. Ogni giorno rivivo nella mia testa la nostra storia, dalla fine all’inizio.
E forse è proprio questo ciò che dobbiamo fare... trovare l’inizio delle nostre nuove vite ripartendo dalla fine. Fare il viaggio all’inverso magari ci farà ritrovare lì, dove i nostri occhi si sono incontrati per la prima volta...
E oggi ho fatto il primo passo indietro in quella strada che abbiamo percorso fin qui.

Oggi... ogni sforzo è crollato sotto il peso di poche parole. E’ stato inevitabile.

Questa mattina, dopo l’addestramento, chiacchieravo con Jeremy, un giovane soldato. Mi parlava di Beth, la ragazza della quale è pazzamente innamorato. La ragazza che probabilmente non lo aspetterà. E mi ha detto una frase, una di quelle che ti entrano dentro e ti smuovono qualcosa nel profondo. Mi ha detto:

“Mi è sfuggita dalle mani...”

E’ stato il pensiero che mi ha accompagnato per il resto della giornata. E sai perché?
Perché mi ha riportato a un’immagine, a qualcosa che fa parte della nostra storia...
La tua mano che scivolava via dalla mia quella sera, fuori dal Founding Fathers, dopo il processo della Taffet.

Quando avrei voluto solo rassicurarti nella maniera giusta, quella che ti avrebbe convinta a restare. Quando avrei desiderato tenerti con me, stringerti in un abbraccio come quello di qualche sera prima, quando mi raccontasti dei tuoi incubi. Quando avrei voluto accarezzare le tue fragilità, quelle che raramente e solo con me hai lasciato uscire. Quando avrei voluto tenerti con me e invece... Mi sei sfuggita dalle mani...

Sento ancora le tue dita sottili che scivolano via e, per quanto mi sforzi di convincermi che sia giusto così, tutto quello che vorrei è avere la certezza che un giorno potrò riprenderti e tenerti per sempre con me.

Booth

Maluku, 15 giugno 2010

Quasi un mese.
Dall’arrivo, dalla nostra partenza, dalla nostra separazione.
Dalla prima lettera che ti ho scritto.

Il lavoro è stato impegnativo fin dai primi giorni. Gli scavi sono molto delicati da gestire e hanno bisogno di costante cura e attenzione. Le frequenti piogge che si abbattono sulle isole purtroppo non aiutano e ci costringono a cambiare il progetto costantemente, rallentando gli scavi per proteggerli ed evitare che subiscano danni irreparabili.
Per questa ragione sono stata lontana da questi fogli e da questa penna. Per questa ragione e... non solo.

Ogni volta che il cielo si fa scuro e le nuvole si accumulano minacciose mi lascio trascinare negli eventi. Mi immergo in uno stato di concentrazione totale per paura che quelle gocce d’acqua possano inondare la lucidità di cui necessito per portare avanti il mio progetto. Quello scientifico e... quello della mia vita.

So che se in quei momenti mi fermassi la ricerca delle risposte e della mia obbiettività annasperebbe per colpa di quella pioggia. Ogni logica diventerebbe disordine, più di quanto lo sia già. Perché ogni temporale porta con sé ore incalcolabili di pensieri.

Pensieri che si sommerebbero a quelli già presenti e che fatico a incanalare nel giusto ordine. Quello che riuscivo a trovare accanto a te. Quello che in cinque anni mi hai aiutato a gestire. Quello che tu stesso hai saputo confondere.

E faccio un passo indietro rispetto a quello che mi ha portato a decidere di andare avanti.
Torno a ricordare le tue parole di quella sera, dopo il processo. Quelle con le quali hai sempre saputo sollevarmi nei momenti di difficoltà e che avrei voluto fossero riuscite anche quell’ultima volta a farmi superare gli incubi.
La paura di non riuscire a salvaguardare la tua vita. La mia.

Torno al momento in cui sono sfuggita dalle tue mani, quando sono scivolata via senza darti la possibilità di lottare per tenermi con te. E se non l’avessi fatto? E se ti avessi permesso di tenermi con te?

Poi però ci sono momenti, quando la pioggia si placa, in cui noi, sotto le tende, guardiamo gli scavi protetti da quell’acqua che avrebbe potuto insinuarsi. Sereni perché consci del fatto che li abbiamo difesi.
Consapevoli che potranno ancora darci le risposte decisive per l’intera umanità.

In quei momenti ritrovo la razionalità.
Ritrovo la motivazione che mi ha spinto a proteggere il mio disordine dal rischio di essere danneggiato irrimediabilmente.
Ritrovo la possibilità di incanalare ogni emozione come sono abituata a fare.
Ritrovo la ragione che mi ha fatto sfuggire dalle tue mani.

E intravedo la serenità, Booth.
Quella del giorno in cui sarò pronta per farmi riprendere e per far sì che tu mi tenga per sempre con te.

Bones